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giovedì 14 marzo 2013

Rischio emittente, come difendersi.

Le obbligazioni presentano un rischio, definibile come eventuale incapacità dell’emittente di pagare gli interessi e il capitale. Questo rischio viene stimato dalle società di rating che usano una scala ordinale a sei valori:
AAA, rischio minimo
AA, rischio modesto
A, rischio medio basso
BBB, accettabile
BB, accettabile con attenzione
B, attenzione specifica con monitoraggio continuo
Questa scala ordinale può venire letta in modo intuitivo, e per solito si traduce nell’uso di aggettivi come quelli sopra indicati (cfr. Il Sole 24Ore, Guide di Plus 24, marzo 2012, n°3, Le obbligazioni, p. 33). Se poi gli aggettivi sono fatti corrispondere a stime di probabilità, non è facile capire il senso di previsioni dei rischi espresse sotto forma di descrizioni di forchette di valori di probabilità.
Queste, se lette isolatamente, cioè senza un confronto numerico in termini di aumento o diminuzione del rischio, sono ancora meno perspicue e trasparenti, per l’investitore di cultura media, delle espressioni linguistiche sopra citate. Ecco le forchette di probabilità, sempre tratte dalla guida di Plus sopra citata:
AAA, probabilità di default a 5 anni: 0,1%
AA, probabilità di default a 5 anni: da 0,16% a 0,56%
A, probabilità di default a 5 anni: da 0,63% a 0,89
BBB, probabilità di default a 5 anni: da 2,81% a 5,54%
BB, probabilità di default a 5 anni: da 8,62% a 16,27%
B, probabilità di default a 5 anni: da 21,96% a 39,23%
Se esaminiamo l’elenco sopra indicato,i valori e l’ampiezza delle forchette di probabilità di un default dicono poco all’investitore medio. Non sempre passare da una scala ordinale, come quella con gli aggettivi, a una scala intervallo, come quella con le probabilità, chiarisce le idee, soprattutto quando le forchette sono tanto ampie.
Che cosa significa, intuitivamente, una percentuale di default dello 0,1% nei prossimi cinque anni? C’è un’ambiguità ancora maggiore rispetto a dire che, per domani, le probabilità che piova sono il 33%, cioè una su tre. Che cosa implica? Vuole forse dire che in giornate, per cui è stata fatta in precedenza questa previsione, piove una volta su tre? Oppure, che invece di piovere sempre, domani avremo pioggia per un terzo del tempo? Oppure che giornate simili a quella di oggi precedono una giornata piovosa una volta su tre? E così via ... .
Nella tabella precedente, tratta dalla guida di Plus, l’unico elemento perspicuo, leggibile immediatamente, è la constatazione di un salto, percepibile a occhio, nel rischio associato a una tripla AAA rispetto alle obbligazioni meno sicure, dalle doppie AA in giù. Si passa dall’1 per mille al 16/56 per mille, cioè a una forchetta di sedici-cinquantasei volte maggiore! Da una volta su mille delle AAA, a sedici volte su mille delle AA, come minimo! In realtà la stessa forchetta della AA è molto ampia, perché spazia da 16 a 56. Quindi una AA può arrivare ad avere persino 56 probabilità in più di default ri- spetto a una AAA.
Come abbiamo già ricordato, la ricerca della massima sicurezza ha indotto nel 2012, e continua a indurre molti anche nel corso del 2013, a mettere i risparmi in titoli tripla AAA, che diventano sempre più rari e ambiti, pur offrendo rendimenti reali fortemente negativi.
possibile di rischi. Oggi molti si domandano come mai la paura è tale da indurre ad acquistare Bund a 10 anni, cioè obbligazioni governative triple AAA, il cui rendimento è inferiore all’inflazione. I momenti di massima paura, come vedremo meglio più avanti, andrebbero forse più saggiamente intesi non come motivazione e stimolo per rifugiarsi in una tripla AAA, ma come un segnale di un punto di svolta, un concetto che abbiamo già analizzato.
Perché è così difficile, così anti-intuitivo, vedere nella paura un segnale per il futuro, un contrassegno di un presente o prossimo punto di svolta, invece che un effetto psicologico che si associa a un pericolo o a un danno del passato che ci ha reso ansiosi? La risposta è semplice. Per solito, nel corso della vita, in molti scenari, è saggio e prudente evitare quello che in precedenza ci ha causato molta paura. Cerchiamo di non ricadere nelle situazioni in cui abbiamo corso grandi pericoli. Purtroppo, trasferendo questa stessa strategia ai mercati azionari, facciamo scelte meno sensate, giustificate solo sul piano emotivo. Per esempio, abbiamo più paura della borsa quando questa è scesa a lungo e ci ha fatto soffrire. E allora vendiamo, quando invece sarebbe il momento per fare l’opposto, o, almeno, per non vendere. La paura, di solito, serve a renderci meno vulnerabili, ma in questi scenari specifici,
viceversa, non ci induce a fare quello che sarebbe conveniente per i nostri risparmi. Per ora limitiamoci a osservare che, normalmente, in tutti gli scenari pericolosi, esclusi quelli economico-finanziari, spesso il comportamento adattivo e razionale consiste non solo nell’avere paura, ma anche nel ricordarsi delle paure del passato. E’ il ricordo delle paure che ci tiene lontani dai pericoli.
I risparmiatori americani hanno subito, in questi primi dodici anni del nuovo secolo, due docce fredde: quella iniziata nel 2000 e quella dell’ultima crisi. Quando poi, nel marzo 2009, le azioni erano molto economiche, almeno su base storica, i più non ne hanno approfittato perché, in meno di un quindicennio, avevano già sofferto per ben due volte. E neppure gli esperti l’hanno fatto più che tanto, dato che i gestori dei fondi pensione statunitensi si sono comportati come quelli bri- tannici (cfr. dati già presentati). Ma sono stati soprattutto gli investitori singoli ad aver perso l’occasione di cavalcare il più forte incremento dei mercati statunitensi dal 1998 (5.6 trilioni di crescita dal marzo 2009 e 481 società su 500 dello S&P 500 con incrementi di valore, per un’analisi dettagliata lyhomasson@bloomberg.net ).
La paura col tempo si attenua, ma il suo dissolversi è completo solo quando arriva una nuova generazione. Bisogna che svanisca la memoria della precedente generazione, sostituita dalla successiva, quella che non è stata scottata. Quando un risparmiatore (soprattutto maturo: un sessantenne o un settantenne, e quindi privo di un orizzonte senza limiti di fronte a lui), ha subito due mercati orso dal principio del secolo, e se li ricorda bene perché ci è cascato dentro, evita di cascarci per una terza volta perché teme il classico: “non c’è due senza tre!”. Nel 2009 il valore delle azioni era basso su base storica, e si sarebbe potuto sperare nell’azione del fattore “regressione verso la media”, la tendenza cioè a riallinearsi ai valori storici, quando ci si è molto distaccati da essi, sia andando troppo in alto rispetto alla media storica che calando troppo in basso. Ma l’emozione “paura” è più forte del ragionamento “ci sarà un ritorno verso la media”, e così l’investitore “maturo” non ci si è avventurato, proprio perché riteneva di esser diventato saggio e di aver imparato a tener conto delle sue esperienze passate. E così ha finito per trascurare la svolta più rilevante, e la più grande occasione di guadagno capitata in questo secolo.
Resta poi un’altra domanda, dal punto di vista della razionalità economica: come mai, dal 1998 al 2008, per un intero decennio, i mercati differenziavano assai poco i rendimenti dei Bund, i titoli governativi tedeschi, rispetto ai Btp, quelli italiani? Solo alla fine del 2011 è scoppiata la febbre dello “spread”, cioè della differenza di rendimento tra il governativo decennale tedesco e quello italiano. Eppure la probabilità di default in termini di rating era già allora assai diversa, perché differenti erano le valutazioni delle agenzie. Questo fatto dimostra ancora una volta che sono la reputazione e la paura, e non soltanto la misura del rischio oggettivo, ove questa è possibile, a influenzare la differenza di rendimenti tra i titoli governativi dell’area euro.
A questo fattore psicologico, la paura, se ne aggiunge un altro, ancora più paradossale, connesso al tentativo degli operatori esperti di anticipare gli eventi, formulando previsioni sul futuro e dando per scontate tali previsioni. Dato che passare da una valutazione AAA a una valutazione AA comporta un aumento del rischio di almeno sedici volte, ci aspetteremmo che questo cambiamento del livello di rischio sia correlato a un grande cambiamento nel valore del titolo (più rischio = rendimento più alto = prezzo più basso basso).
Ma é sempre così ?


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